Fabio Galluccio potrebbe essere – cronologicamente – il primo diversity manager in Italia: in Telecom dal 1980 (quando ancora si chiamava Sip), nel 2009 è diventato manager per il Welfare, più precisamente per il “People caring”. Laureato in legge, appassionato di politica, attento ai temi della libertà civile, in azienda lavora per abbattere i pregiudizi. Non se ne occupa da solo, ma con il Team diversity, composto da 8 persone. È lui uno dei protagonisti di “Diversità e inclusione. Dieci dialoghi con diversity manager”, il nuovo libro di Valentina Dolciotti, formatrice e consulente per le tematiche di diversità e inclusione, edito da Guerini Next (166 pagine, 18 euro). Il Team diversity lavora senza budget e si muove sia offline, sia online: una due giorni solo per manager per confrontarsi sul concetto di diversità; una rete intranet per affrontare argomenti “diversi” – donne, genere. Ma non sempre è facile: tra i temi che ancora hanno molto bisogno di essere valorizzati e inclusi, indicano senza dubbio etnia e orientamento religioso.

Il diversity manager. Chi è il diversity manager? “In base alle esperienze raccolte per il libro – 3 uomini e 7 donne – posso dire che ancora non esiste una definizione precisa. Nessuna delle aziende a cui mi sono rivolta ha creato questa figura dal nulla: si tratta sempre di una persona che già ricopre un ruolo alla quale è affidato anche questo incarico”. In genere si tratta di dipendenti inseriti nelle risorse umane o nella responsabilità sociale. Impossibile, a oggi, dire quale sia la formazione più diffusa tra i diversity manager: c’è chi è laureato in filosofia, chi in legge, chi in economia: “Questo potrebbe essere un bene: tante sensibilità differenti che si occupano di inclusione. Anche in questo caso, le diversità arricchiscono”. È necessario che il diversity manager abbia esso stesso una diversità? “Personalmente, credo che ognuno di noi sia diverso dagli altri”. E fa l’esempio di Ibm: nella multinazionale, Doriana De Benedictis e Consuelo Battistelli lavorano fianco a fianco nelle Risorse Umane e svolgono in due il ruolo di Diversity engagement partner per Ibm Italia: “Consuelo è non vedente: certamente questo dato non è secondario, ma non è tutto. Le loro due professionalità vanno di pari passo”.

Il ruolo del diversity manager. Come detto, il suo scopo è l’inclusione. “In generale, un diversity manager tutela le diversità – di abilità, di orientamento sessuale, di genere, di religione, di etnia – prima ancora di sapere se sono presenti nell’azienda. Poi, si occupa della loro valorizzazione, sia attraverso progetti pratici, sia con la promozione di campagne di sensibilizzazione”. Secondo Dolciotti, la diversità più “riconosciuta” è quella delle persone con disabilità, grazie anche alle tante associazioni che da anni portano avanti “questa battaglia”, mentre quando si parla, per esempio, di tematiche Lgbt, il riferimento è a una storia più recente.

Sbocchi professionali. A oggi, come spiega il libro, sono le grandi aziende quelle più sensibili su questi temi, quelle più aperte e pronte a innovare. “Da parte delle piccole medie imprese, invece, ho riscontrato alcune resistenze”. Secondo Dolciotti, il problema non è di ordine economico (“Basterebbe che per la formazione si appoggiassero ad aziende più grandi”), bensì di carattere culturale: “Per cominciare a occuparsi di questi temi serve la volontà politica da parte della proprietà. Spesso le pmi sono guidate da uomini e/o sono a conduzione familiare. Per loro, aprirsi a queste tematiche significa un doppio salto culturale”. Ma, secondo l’autrice, presto tutte le aziende si accorgeranno del vantaggio di lavorare con team misti, in tempi e modi diversi. “L’inclusione permea molti ambiti, tutti si possono accorgere di come sia fondamentale. Nel mondo del lavoro solo una cosa deve contare: le competenze”. Oggi, se cerchi posizioni aperte sulla diversity, “nel nostro Paese ne trovi giusto un paio. Ma se effettui la stessa ricerca a Londra, sono moltissime. Spero che anche qui da noi, presto, sarà così”.

Un impegno recente. Dolciotti racconta di avere scelto di occuparsi del tema perché, in qualsiasi azienda andasse “ero io che dovevo spiegare chi fosse un diversity manager e che mansioni svolgesse. Non esistendo nessun riferimento, ho voluto crearlo”. Per ora, non esistono nemmeno riferimenti legislativi. “Come è successo per la sicurezza sul luogo di lavoro, credo che una legge serva, anche se, spesso e volentieri, le aziende sono più avanti della politica. Comunque, le campagne di sensibilizzazione sono imprescindibili perché anche da lì passa il cambio culturale che deve accompagnare un’ipotetica normativa. È necessario che passi il messaggio che la diversità non è tanto un valore aggiunto, un plus, ma un vero e proprio pilastro fondamentale”. Ma le cose stanno cambiando. Come spiega la formatrice, nell’ultimo anno i diversity manager sono aumentati esponenzialmente: “Detto ciò, arriviamo comunque tardi: di questi temi gli Stati Uniti se ne occupano dagli anni Sessanta. Da lì, Inghilterra e Nord Europa sono stati ‘contagiati’. In Italia ce ne accorgiamo solo ora: diciamo che è lo specchio del nostro Paese. Il fenomeno migratorio ci obbliga anche a cominciare a parlare di questi temi”.

Il vantaggio di avere un diversity manager in azienda. Sofia Nasi ha 39 anni ed è la diversity manager di Ferrovie dello Stato. Come spiega nel libro a Dolciotti, tutto parte da un assunto che, in primis, guarda all’esterno: “I nostri clienti sono il mondo, quindi più siamo capaci di dialogare e comprenderne i bisogni, meglio riusciamo a offrire servizi di qualità”. Così, un’azienda dovrebbe attivare politiche per la diversity per tre motivi: per anticipare – e accogliere – i bisogni dei clienti; perché “la diversità porta innovazione”; perché c’è la necessità di valorizzare tutti i talenti in azienda, presenti e futuri, disabili, giovani, vecchi, italiani, stranieri, omosessuali. “Se il pregiudizio ci porta a considerare sempre come più meritevole l’ingegnere maschio 30-40enne, rischiamo di perdere valore. E per accogliere le diversità dobbiamo creare ambienti aperti, stimolare il pensiero critico e l’accettazionereciproca. Quando parliamo di diversità e inclusione parliamo di una filosofia. Mi auguro che tra 10 anni di diversity manager non esisteranno più, perché sarà la modalità normale con cui tutte le politiche delle risorse umane saranno sviluppate”.